Lo ammetto, sono fortunata. Ho un parco proprio sotto casa, anzi, mi piace pensare di averlo un po’ anche dentro casa. Le finestre del soggiorno infatti sembrano quasi incorniciare i rami degli alberi, tristi e nudi d’inverno, ricoperti di tenere foglioline brillanti in primavera. Se mi sporgo appena, riesco a vedere la fontana con le rocce, al centro, e più in là, sulla sinistra, il campetto di calcio: un fazzoletto di terra spelacchiata desolatamente privo di porte, circondato da una rete ormai logora. I ragazzini, però, lo riempiono a qualsiasi ora, sfidandosi senza sosta in dribbling ostinati che parrebbero impossibili in quei pochi metri.
Jane Austen, “Mansfield Park”
Quante giornate ho trascorso sulle panchine lì accanto! Interi pomeriggi a guardare la figurina esile di mio figlio stagliarsi contro il cielo blu, sempre più forte, sempre più in alto, su quell’altalena che sembrava volare. Un tempo fuori dal tempo, eternamente dilatato. Un tempo vuoto, in cui i pensieri vagano liberi, senza forma e senza meta. Perché la cosa bella di un parco è che ti accoglie sempre. Senza giudicare, senza chiedere nulla in cambio. Con la pioggia e con il sole, in qualsiasi momento della giornata.
Jerzy Kosinski, “Oltre il giardino”
Spesso ci trovi riunite insieme, una accanto all’altra, le diverse età della vita: i neonati in carrozzina, i più grandicelli nel campo giochi, gli adolescenti che parlottano in piccoli gruppi timidi e sfrontati, in sella ai motorini. E poi donne sole, giovani e meno giovani, badanti ucraine con le loro vecchiette in sedia a rotelle e pensionati ancora aperti alla vita. Tutti cercano qualcosa, uno spazio rubato alla frenesia cittadina, un contatto, forse un sorriso. Si guardano, si osservano, si studiano. Con ironia e curiosità, con tenerezza e nostalgia. Intanto, un bimbo sfreccia felice sulla piccola giostra: un altro giro, un altro giorno, un’altra storia.
Sergej Dovlatov, “Il parco di Puskin”